Madre di Pietà

Amore e morte all’origine della Cappella Sansevero

Drammaturgia: Riccardo De Luca

Autore romanzo: Beatrice Cecaro

Regia: Riccardo De Luca

personaggi e interpreti

Adriana Carafa della Spina – Antonella Romano

Gesualdo da Venosa – Mimmo Calopresti

Maria Maddalena Carafa – Annalisa Renzulli

Fabrizio d’Andria – Francesco Marino

Maria d’Avalos – Lucrezia delli Veneri

Torquato Tasso – Riccardo De Luca

Silvia Albano/Ortensia – Tina Femiano

Don Giulio Gesualdo/Frate Descalzo – Gino Grossi

Bardotto/Suor Orsola Benincasa – Salvatore Veneruso

 

Musiche: Paolo Coletta

Costumi: Annalisa Ciaramella

Produzione: Stati Teatrali

Debutto: Napoli Teatro Festival Italia, Chiesa di Donnaregina, Napoli

 

Note introduttive allo spettacolo

 

Questa storia riporta alla luce la vera storia dell’origine della Cappella. Sul palcoscenico si raccontano attraverso la parola, la musica e la danza, i protagonisti complici e vittime di uno dei più efferati assas­sinii che la storia di Napoli abbia mai subito. Gesualdo da Venosa marito tradito, ammaz­za senza pietà la moglie Maria d’Avalos e il suo giovane amante Fabrizio Carafa, colti in flagrante adulterio nel letto di nozze. Toccherà ad Adriana Carafa ridare onore e dignità all’anima del figlio Fabrizio. Sullo sfondo non la vendetta, ma la Pietas. In tutta la sua po­tenza.

«Mi dica, caro amico, ma lei ha mai ottenuto una vittoria, una di quelle che si ottengono solo passando per l’angoscia? Questa è una della grandi questioni che Ibsen pone a base della ricerca morale.

È la lunga, angosciosa ricerca della verità che Beatrice Cecaro percorre per sconfiggere il gelo del “vuoto e del luogo comune” che hanno da sempre circondato la nascita della celeberrima Cappella Sansevero che andandosi a unire alle altrettanto false dicerie sul Raimondo di Sangro, avvolgevano la Cappella e i di Sangro di un’aura sinistra. Ascoltando le sue intuizioni, analizzando tanti documenti Beatrice ottiene la sua vittoria donando alla Cappella la sua vera origine. E il cammino è spinoso, ci graffia le gambe e prima che arrivi la luce è buio, come il cuore di chi teme quella luce e si pone come rovo per quei viandanti. Che per riflettere sulla conoscenza, e poi silenziosamente allontanarsi, come tu volevi, caro Raimondo, settimo principe di Sansevero, devono pas­sare per l’inferno dei sentimenti umani: quelli dal cuore nero, come Gesualdo, dal cuore innamorato come Maria d’Avalos e Fabrizio duca d’Andria, dal cuore folle come Maria Maddalena Carafa, dal cuore spezzato come Adriana della Spina.

Ecco i grandi personaggi protagonisti di questa storia.

Adriana Carafa della Spina, progenitrice dei Sansevero, madre di Fabrizio duca d’Andria, spezzata dal dolore dell’assassinio del figlio. Ma Adriana non passerà il tempo a tramare sordide vendette, semmai a cercare almeno nell’aldilà la salvezza del figlio, concretamen­te facendo erigere la Cappella Sansevero dal suo secondo marito Giovan Francesco di Sangro, ricucendo così le due parti del suo cuore. Quello della Madre con il suo dolore e quello dell’immensa Pietà che ne produsse. Madre di Pietà.

Maria, detta poi da suora Maria Maddalena, moglie tradita di Fabrizio, mistica, religiosa, penitente, generosa con la Povertà, povera con l’Amore, violenta con se stessa fa della sua vita un’aggressiva mortificazione continua fin quando il suo cuore traboccherà di sangue folle. I suoi silenzi, le omissioni, i rancori avranno effetti tragici e finirà a guaire in­contrando fantasmi, suoi compagni di sangue. Maria Maddalena è l’esemplificazione, in un mondo dove i sogni e le visioni si confondono, di quanto l’uomo sia scisso e vulnera­bile.

Maria d’Avalos e Fabrizio Carafa, innamorati perduti, entrambi sposati con coniugi violen­ti, subiranno uno dei più crudeli ammazzamenti che la storia di Napoli ricordi. E i ricordi che abbiamo di loro si perdono nella tenerezza del loro amore traditore e tradito.

Gesualdo da Venosa, sì proprio lui, il genio musicale, marito tradito di Maria d’Avalos, gelido pianificatore del delitto di cui sopra, dimostrerà di appartenere a quella razza pre­datrice dove il sangue non è rosso. Lui è il nero assassino di Fabrizio, figlio di Adriana. Subito dopo lo vedremo rinchiudersi nel suo castello a rincorrere la sua anima come un uomo rincorre la sua ombra.

Uno spettacolo dove i piani temporali e spaziali sono senza linee di confine, fatto di imma­gini fuggenti, personaggi onnipresenti, che si guardano, che si scrutano, che si spiano – come nell’Amleto, come ne Il gabbiano – che si rincorrono, che si parlano e parlano a noi, uomini contemporanei, perché la vita e la morte, il passato e il presente, semplicemente, si confondono. Ci sarà un Narratore che ci accompagnerà nella storia; Maria d’Avalos e Fabrizio d’Andria ballerini-attori che sublimeranno l’eros e la morte; attori che ci porteran­no dinamicamente negli sfarzi delle processioni e delle feste; i madrigali del genio Gesual­do diverranno distorti gli incubi sonori della sua agonia spirituale così come tutte le musi­che saranno proiezioni delle anime dei personaggi – ogni personaggio avrà la sua musica – vissute scenicamente in modo plastico; e non saranno pochi i personaggi che ci parle­ranno dal futuro, o da quell’ambiguo confine dove, come dicevamo, vita e morte, presen­te e futuro, si confondono.

L’approdo sarà la faticosa, visionaria, angosciosa vittoria contro la falsità, le ipocrisie, l’oscurantismo, così come è cominciato il viaggio. E la “pietas” il rispetto e l’amore verso gli altri il motore e l’ottica con cui guarderemo questi storici personaggi, come, in fondo, dovremmo guardare noi stessi».

rassegna stampa

L’impeto travolgente e la forza dei sentimenti umani: Madre di Pietà

Uno spettacolo intenso e traboccante di espressività quello andato in scena nella chiesa di Donnaregina Nuova del Museo Diocesano di Napoli l’11 e il 12 luglio. Una cornice suggestiva per un dramma corale incentrato su una storia d’amore tragica e dagli strascichi dolorosi, tra i marmi barocchi e gli stucchi dorati delle cappelle antiche, circondate da affreschi secenteschi d’ispirazione sacra. Un assassinio il cui frutto è stato, insieme al dolore, la nascita della famigerata Cappella di Sansevero, legata alla figura del principe Raimondo di Sangro, e di cui una discendente, Beatrice Cecaro, ha ricostruito le origini nell’omonimo libro da cui è tratto lo spettacolo. Le atmosfere cupe della Cappella sono ricalcate dalla messinscena di Riccardo De Luca, anche autore del testo teatrale, e dalle interpretazioni di Antonella Romano e Annalisa Renzulli, centrali nei panni, rispettivamente, di Adriana Carafa della Spina e Maria Maddalena Carafa, Lucrezia Delli Veneri nei panni di Maria d’Avalos, lo stesso Riccardo De Luca a impersonare Torquato Tasso, Tina Femiano, Gino Grossi, Francesco Marino, Salvatore Veneruso, e naturalmente l’ottimo Mimmo Borrelli a dare corpo a uno spietato e crudele Gesualdo da Venosa.

La vicenda è quella sfortunata dell’amore tra Maria d’Avalos, moglie del celebre musicista napoletano Gesualdo da Venosa, compositore di madrigali e musica sacra, vissuto a cavallo tra XVI e XVII secolo, e Fabrizio Carafa, sposato invece a Maria Maddalena, amanti passionali e disperati che troveranno la morte nel palazzo di Gesualdo, una volta che egli avrà scoperto il tradimento e si sarà vendicato con la peggiore delle furie. La notizia della morte di Fabrizio viene accolta con dolore e disperazione dalla madre Adriana, progenitrice della stirpe dei Sansevero, e dalla moglie Maria Maddalena. La prima, “madre di pietà”, appunto, reagirà allo strazio facendo appello alla sua forza, speranza e fiducia nella fede, adoperandosi attivamente per salvare Fabrizio dall’inferno e permettergli, almeno, di accedere al Purgatorio; la seconda, lacerata dai sensi di colpa e distrutta nel profondo dalla perdita del marito, attraverserà uno stato di prostrazione, rinuncia, follia violenta e mortificazione di sé, arrivando soltanto alla fine, una volta ottenuta la salvezza dell’anima di Fabrizio e grazie al sostegno amoroso di Adriana, a risollevarsi, accettare il destino che le è toccato e trovare pace e misericordia.

Uno spettacolo immerso nella storia ma dalla colonna sonora moderna, curiosamente, incentrato sui temi della pietà e della misericordia umana nonché sulla riscoperta di una storia rimasta avvolta da un’aura di leggenda e dai contorni vaghi ma che, con una toccante prova di espressività e grinta da parte degli attori, riesce a rivivere e a impressionarci dall’inizio alla fine.

ntf – Annachiara Pierleoni

A Santa Maria di Donna Regina va in scena “Madre di pietà”

Nel complesso monumentale di Santa Maria di Donna Regina, sito in uno degli angoli più suggestivi di Napoli, nella calda serata di martedì 12 luglio 2016, va in scena lo spettacolo Madre di pietà – Amore e morte all’origine della cappella Sansevero.

La rappresentazione teatrale è tratta dall’omonimo libro di Beatrice Cecaro; la regia è affidata a Riccardo De Luca; le musiche originali sono opera di Paolo Coletta; i costumi sono di Annalisa Ciaramella. Il cast attoriale è molto nutrito: affiancano il regista Mimmo Calopresti – qui nelle vesti di interprete – lo stesso Riccardo De Luca (regista / attore), Antonella Romano, Annalisa Renzulli, Lucrezia Delli Veneri, Tina Femiano, Gino Grossi, Francesco Marino e Salvatore Veneruso.

I personaggi si muovono in maniera “geometrica” sull’«altare-palcoscenico» della mastodontica chiesa, le cui navate sembrano incombere minacciosamente sui loro destini. Una «geometria variabile» che tende a disorientare lo spettatore, non offrendogli alcun appiglio o certezza sul dipanarsi della matassa, perché – si sa – la quantità di conoscenze  circa se stessi supera di gran lunga quella che possediamo rispetto a qualunque altra persona. E allora la scena si sposta dal sagrato al corridoio centrale della chiesa, costringendo gli spettatori a riposizionare il loro sguardo, che dapprima è proiettato verso l’altare, dove stazionano quattro personaggi – due maschili e due femminili – disposti sul palco in modo «parallelo», dopodiché la visione si concentra in uno spazio lontano e misterioso, che sembra richiami oscuri presagi. La morte irrompe sulla scena, portando con sé angoscia e sgomento.

La storia è incentrata sulle origini della Cappella della potentissima e oscura famiglia dei Sansevero, in un periodo in cui Napoli è attraversata da tradimenti, inganni ed efferati omicidi.

Siamo alla fine del ‘500: il perfido e potente Gesualdo da Venosa uccide in modo vile e truculento la moglie fedifraga Maria d’Avalos, che coglie in flagrante adulterio, nel talamo nuziale, assieme all’amato Fabrizio Carafa.

Sembra quasi che il regista-attore De Luca si diverta a mischiare le carte del suo racconto, dove i repertori comportamentali risultano, molto spesso, poco funzionali rispetto allo specifico contesto in cui ci si trova. Capita che una musica rock interagisca con un ballo cinquecentesco, oppure che una canzoncina italiana sia seguita da un canto bucolico: in tutto ciò i comportamenti degli attori diventano volutamente poco informativi nei confronti della platea.

Anzi, quando tali comportamenti dovrebbero essere socialmente disapprovati, finiscono col radicare un’immagine che soggioga le coscienze: una violenza subdola che supera lo stesso delitto e finisce col condurre l’individuo in uno stato di alienazione, così come accade nel caso della nobildonna Maria Maddalena Carafa, che reagisce all’uccisione del suo «amato-traditore» Fabrizio, ordinando alla sua fida Ortensia di eseguire i suoi voleri di carità e di preghiera.

Il regista sovverte le modalità di relazione e di confronto tra i personaggi che abitano la scena, lasciando agli spettatori degli interrogativi di fondo. Siamo in una Napoli, in cui i potenti vivono in un benessere fittizio e sono avvolti in una gigantesca spirale di bisogni che nessuno di loro riesce compiutamente a soddisfare: Fabrizio e Maria si amano alla follia e le loro piroette danzanti rappresentano un’inequivocabile metafora della loro fuggevole passione; Gesualdo da Venosa, uomo colto e raffinato, amante della musica e della vita mondana, non riesce ad ottenere l’amore di sua moglie ed accecato dalla gelosia dà sfogo ai suoi istinti più bassi, spezzando la favola dei due giovani amanti; Maria Maddalena Carafa si crogiola in litanie e suppliche, alle quali accompagna azioni caritatevoli, per colmare una vita mai vissuta realmente; Adriana Carafa della Spina, aristocratica madre del giovane Fabrizio, riscopre la preghiera e la carità, solo dopo la tragedia dell’uccisione di suo figlio.

Angeli e demoni popolano l’altare di Santa Maria di Donna Regina, tra mostruosi delitti – l’uccisione di Fabrizio e Maria – e tremende sventure – la morte del piccolo Luigino, figlio di Maria Maddalena. Uno scenario in cui, tra inganni, sotterfugi ed ipocrisie, non sembra esserci spazio per una reale “pietas”: quella «pietà michelangiolesca» raffigurata «impietosamente» all’inizio della rappresentazione.

Ma gli inganni, i raggiri e i delitti non possono fornire un ancoraggio logico alle scelte di chi li compie. Tali situazioni si realizzano in luoghi e spazi delimitati ed è solo uscendo da questi «limiti» che può maturare un’autentica “pietas”.

Adriana Carafa della Spina riesce ad uscire da questi «limiti» e a diventare la “madre di pietà”: l’atroce sofferenza per l’assassinio del figlio Fabrizio, accompagnata da un reale «percorso mistico», attraverso il quale è condotta da Maria Maddalena Carafa, le conferiscono le “stimmate” della “pietas”. «Perché niente è più potente dell’amore e della pietà. Niente è più potente del dolore di una madre».

ntf – Fiorentino Palumbo