Due Signore

di Manlio Santanelli

regia Riccardo De Luca

personaggi e INTERPRETI

Cibele – TINNI AURICCHIO

Serena – CATERINA DE ANGELIS,

Dottore – RICCARDO DE LUCA

dottorino – SALVATORE VENERUSO

regia – RICCARDO DE LUCA

nota dell’autore

La vita dell’uomo corre lungo un filo che presenta in testa come in coda due segmenti particolarmente delicati. Entrambi sono terreno di coltura di innumerevoli problemi esistenziali (di cui le malattie fisiche non sono da considerare i peggiori). Ma se quelli infantili hanno, o dovrebbero avere, la funzione di formare l’individuo, quelli senili tendono decisamente a deformarlo. E’ il caso di Cibele e Serena, due consuocere, nel senso che la figlia della prima e il figlio della seconda sono più o meno felicemente sposati. Le due donne, in là con gli anni e dunque soggette, come per lo più ogni loro coetanea,  a tutti gli acciacchi e le monomanie dell’età, sono costrette a convivere sotto lo stesso tetto di una casa fuori città, che i figli hanno messo a loro disposizione con la dichiarata giustificazione che là potranno farsi buona compagnia, ma nel deliberato intento di disfarsi della loro presenza .

Ma la convivenza, condizione già di per sé ardua se affrontata da persone simili per estrazione sociale e livello culturale, per Cibele (nata bene) e Serena ( dall’anima contadina) si traduce in un infernale confronto quotidiano, registrato dall’unità di misura dei dispetti più meschini e dei battibecchi senza possibili tregue.

Finché il destino non è lui a farsi carico di trovare la soluzione (che qui non è il caso di riportare).

A commento di tutta la vicenda, comunque, va detto che il livello di civiltà di un paese si giudica dal trattamento che  in quel paese viene riservato agli anziani.

Manlio Santanelli

nota di regia

La scrittura di Santanelli è “comitragica” nel senso proprio del contrario di quello che con Corneille possiamo definire “tragicomico”: non un insieme di ingredienti diversi a blocchi prestabiliti ma la storia che va comicamente come la vita va. E quando la vita va come volete che possa andare se non tragicamente? Se nonché la tragedia Santanelli la trasforma in poesia un attimo prima che la commedia torni a riprendersela, con la sua cattiveria e la conseguente inevitabile comicità. E allora piroette e salti mortali da circo Barnum per stare dietro a tutte queste sfumature per far sì che il pubblico possa godere appieno di questa storia, di questi personaggi di funambolici patetici, emarginati umani a tutto tondo, come nello specchio, quanto mai shakespeariano, della vita.

Così, in questa che è una prima assoluta di un testo inedito mai rappresentato, viviamo assieme ai guai alle tenzoni di queste due anziane signore, campo di battaglia la casa dove sono relegate, più un enigmatico e funambolico dottore in visita, con uno sperduto e camaleontico figlio di dottore al seguito.

Riccardo De Luca

stampa

“Due signore”, al teatro Sanità, scontro di universi paralleli

“La prolifica attività autoriale di Manlio Santanelli aggiunge un altro tassello: “Due signore”, in scena al Teatro Sanità per la regia di Riccardo De Luca fino a domenica 5 dicembre, è la storia di due consuocere (interpretate da Tinni Auricchio e Caterina De Angelis) mandate a convivere (sadicamente?) dai rispettivi figli. Si scontrano così due universi opposti e allo stesso tempo paralleli: l’una, colta ed ispida, l’altra, rustica e cordiale. Unite però dagli acciacchi dell’età, e da un destino di solitudine, certificato dagli interventi del medico (interpretato dallo stesso De Luca) e dello stralunato figlio (Salvatore Veneruso).”

“…le ombre della solitudine della condizione umana (non solo senile) riescono ad aleggiare e ad essere credibili. Temi che De Luca svolge con coerenza e mestiere, e che – serrando i tempi apparsi un po’ slabbrati – riusciranno ad adattarsi meglio al complicato meccanismo del gioco delle parti…”

“…la signora Cibele (Tinni Auricchio) alla consuocera Serena (Caterina De Angelis), con la quale condivide, in maniera coatta, una casa e tanta solitudine. Due signore, Cibele e Serena, due nomi che raccontano i loro destini, esplicitano la loro indole. Due tipi opposti, in eterno conflitto, per educazione, formazione e carattere. Due modi di sentire e di intendere la vita. In antitesi per fisicità, nella prossemica, nell’abbigliarsi, per timbro vocale, per i registri linguistici impiegati. E’ lei, Serena, naturale, e accomodante, con la semplicità del cuore, a colorare la monotonia delle loro giornate e ad emanare, con le sue “rotondità” quel calore che l’austera, filiforme e spigolosa Cibele, abilmente raggela…”

“…Spaziando tra il tragico e il comico, Riccardo De Luca, costruisce con vivacità d’intreccio la trama registica della pièce, esaltando l’acume psicologico e il dinamismo inventivo della drammaturgia. Delineando, con minuzia, ciascun personaggio nei loro tratti fisiognomici ne amplifica il carattere e le peculiarità. In una varietà di commistione di stili e linguaggi scenici, l’attore-regista De Luca, lascia che la grevità del tema trattato, la solitudine degli anziani, si stagli da sfondo, facendo risaltare il sottile gioco ironico dell’ inversione, il ribaltamento. Qui si bara, si finge, si distorce astutamente la realtà…”

(corriere spettacolo – Antonio Mocciola)

“…I virtuosismi linguistici, i giochi di parole, i fraintendimenti lessicali e semantici, tipici dell’usus scribendi del drammaturgo Santanelli, raggiungono il climax quando Cibele e Serena, grazie alle brave interpreti, perfettamente nella parte, inscenano una traduzione simultanea di proverbi della tradizione popolare partenopea, mettendo in atto una vera transcodifica tra codici e registri linguistici differenti (alto/basso)…”

Le due signore di Santanelli arrivano al Nuovo Teatro Sanità – Quando gli opposti non si attraggono: ironia e riflessione nella regia di De Luca

Spesso non esistono risposte sbagliate ma solo domande mal poste o mal riposte. Ed è proprio con domande simili, che ha inizio e termina il lavoro inedito “Due signore” del drammaturgo Manlio Santanelli, che ha debuttato al Nuovo Teatro Sanità dal 3 al 5 Gennaio, con Tinni Auricchio, Caterina De Angelis, Riccardo De Luca, Salvatore Veneruso, con la regia di Riccardo De Luca. Al centro della scena, un tavolo apparecchiato per due con tovaglia di broccato verde ed oro e bicchieri rossi. Sulla sinistra, una poltrona, un libro, uno specchio A destra un tamburo il cui rullo introduce l’esterno.“Chi siete?”, chiede più volte, seguendo il rituale, la signora Cibele (Tinni Auricchio) alla consuocera Serena ( Caterina De Angelis), con la quale condivide, in maniera coatta, una casa e tanta solitudine. Due signore, Cibele e Serena, due nomi che raccontano i loro destini, esplicitano la loro indole. Due tipi opposti, in eterno conflitto, per educazione, formazione e carattere. Due modi di sentire e di intendere la vita. In antitesi per fisicità, nella prossemica, nell’abbigliarsi, per timbro vocale, per i registri linguistici impiegati. E’ lei, Serena, naturale, e accomodante, con la semplicità del cuore, a colorare la monotonia delle loro giornate e ad emanare, con le sue “rotondità” quel calore che l’austera, filiforme e spigolosa Cibele, abilmente raggela. Spaziando tra il tragico e il comico, Riccardo De Luca, costruisce con vivacità d’intreccio la trama registica della pièce, esaltando l’acume psicologico e il dinamismo inventivo della drammaturgia. Delineando, con minuzia, ciascun personaggio nei loro tratti fisiognomici ne amplifica il carattere e le peculiarità. In una varietà di commistione di stili e linguaggi scenici, l’attore-regista De Luca, lascia che la grevità del tema trattato, la solitudine degli anziani, si stagli da sfondo, facendo risaltare il sottile gioco ironico dell’ inversione, il ribaltamento. Qui si bara, si finge, si distorce astutamente la realtà. Il 2 Novembre, senza seguire il rituale, si prega per morti che sono vivi ( come Bruno, il figlio di Serena) e non per quelli realmente morti ma che si dichiara essere vivi ( come Generoso, il marito di Serena) La padrona di casa Serena si mostra serva, è lei che deve seguire un rituale per poter entrare nella propria casa, come una senzatetto con materassino in spalla. Cibele, l’ospite pagante, è la vera signora-padrona, che siede altera sulla poltrona-trono, immersa nelle sue letture di triste spessore ed argomenta dell’epicureo Lucrezio, del mito del buon selvaggio di Rousseau e canta la ninna nanna di Cesare Pavese. Cibele, ostentando la sua superiorità culturale e dialettica, con il suo nome aristocratico, ma sturciuso per Serena, non riesce a celare la sofferenza di madre dimenticata da una figlia troppo istruita e perciò troppo impegnata per farle anche solo una telefonata. Rosa, figlia assente ma fortunata nel sistemare l’anziana madre ed il cane, nello stesso parcheggio, “l’hotel Serena”. I virtuosismi linguistici, i giochi di parole, i fraintendimenti lessicali e semantici, tipici dell’usus scribendi del drammaturgo Santanelli, raggiungono il climax quando Cibele e Serena, grazie alle brave interpreti, perfettamente nella parte, inscenano una traduzione simultanea di proverbi della tradizione popolare partenopea, mettendo in atto una vera transcodifica tra codici e registri linguistici differenti (alto/basso). E’ da una porta laterale della platea che giunge il mondo esterno, le visite degli pseudo-medici, il dottore (Riccardo De Luca) e il dottorino suo figlio (Salvatore Veneruso). Figure, volutamente poco incisive e di contorno al rapporto antitetico della coppia. Il dottore, rappresenta il becero pensiero comune, oramai dilagante, secondo cui, la terza età è una malattia contagiosa da evitare. Seppur unico depositario delle chiavi di casa e della fiducia delle donne, finge spudoratamente di avere a cuore la loro salute, scaricandole appena possibile al figlio inetto ed incapace. Il dottorino, o meglio il dottorerà, come suggerisce l’acuta Cibele, è marcatamente caratterizzato in un personaggio strambo, astruso ed ipovedente, che nell’apprendimento forzato della professione paterna (forse veterinario?) svolge il suo maldestro tirocinio assistito dalla signora Serena che, pazientemente, gli si offre come cavia. Il dottorino, orbo nell’animo, perde i suoi occhiali e nel cercarli travolge il tavolo per ritrovarsi carponi, mano nella mano, con la signora Cibele che recita “Che gelida manina…”. Ecco che prende vita la Bohème di Puccini ma qui Mimì parla come Rodolfo (ennesimo ribaltamento) Rodolfo, rompendo le unità spaziali e temporali, si solleva ed il tappeto-mantello e con solennità lirica prorompe con la famosa area “Chi son? Sono un poeta…”, mettendo così a nudo la sua vera natura e vocazione Qui la temperatura di passione bohémien avvolge i due amanti, portandoli altrove. Il dottorino, ritrovando gli occhiali vuole immortalare le due anziane signore con la macchina fotografica, come soggetti di studio per la sua tesi. Ma Cibele fa molto di più: gli detta concetti chiave per l’introduzione: un tempo l’anziano, senior, era per tutti una risorsa a cui attingere saggezza, oggi, invece, è una maledizione di cui disfarsene quanto prima. Così Cibele, conscia del fugit tempus, come la contessa di Castiglione, la femme fatale del Risorgimento, copre lo specchio ed “abbandona ogni vanità terrena”. La messinscena“Due signore” si snoda con fluidità grazie ad ingranaggi scenici ben consolidati, eccetto nei pochi momenti in cui a causa di problemi tecnici che impediva la buona ricezione delle voci, il ritmo dialogico calava. Particolarmente intenso si rivela il momento in cui dall’alto calano cornici dorate con le foto degli antenati di serena. E’ la commozione con la quale Serena mostra la sua galleria di affetti, il segno registico con il quale De Luca pone l’accento su una probabile empatia tra la perfidia del cane e quella della padrona, come se tra i due potesse stabilirsi una continuità in base alle loro affinità elettive. Il cane Lola distrugge tutte le foto, mangiando così tutti i cari di Serena, compresi il monsignore e la zia crocerossina. Serena, afflitta, sentendosi ora davvero sola e priva di radici familiari, vuole vendicarsi di tutti i torti subiti dalla sua ospite “dispettosa come una scimmia”, servendole un pranzetto particolarmente prelibato: una bistecca di Lola. Cibele, istrionica in tutte le sue manifestazioni emotive, sentendosi Tieste declama il sillogismo: Lola ha mangiato gli antenati di Serena, io ho mangiato Lola quindi io ho mangiato gli antenati” Ma lei non è Tieste, perché Serena non è Atreo e nel piatto c’era soltanto carne di coniglio. Infine, Cibele, con estrema freddezza, sposta il candelabro posto innanzi alle mentite spoglie dell’amato quadrupede, al capezzale della sua vittima Serena defunta. Finalmente sembra che Cibele dispiaciuta si abbassi ai livelli ,spaziali e non, di Serena. La morte, si dice , equipara ogni status. Ma è solo un illusione: Cibele si mostra turbata da questa prematura dipartita, soltanto perché non prevista dal loro contratto di affitto. “Ed ora chi metterò in croce?” E come da rituale, la querimonia continua.

(L’inkiesta Napoli – Antonella Rossetti)