71 ROSE DI RAME

discorso sull’utopia, dai personaggi e dalle parole di Fabrizio De André

di Riccardo De Luca

attori

Luisa Amatucci, Salvatore Veneruso, Amalia Abbisogno, Elisabetta De Luca, Augusto Petrellese, Alfonso Salzano, Maria Sperandeo, Michele Romano, Annalisa Renzulli

drammaturgia, regia, coreografie, scene e costumi di

Riccardo De Luca

Note introduttive

71 rose per i 71 anni di Fabrizio De André. Di rame perché non appassiscono, perché il rame è il metallo degli zingari, perché di rame e vivente vedo il mostro a tre teste, che mi affascina, e che il Faber cavalcava nelle sue canzoni, storie d’amore sì, ma nel loro significato più profondo, storie che raccontano il complesso e passionale rapporto tra l’uomo e la sua utopia:

“Se ti tagliassero a pezzetti il vento li raccoglierebbe, il regno dei ragni cucirebbe la pelle… signora libertà, signorina anarchia”.

Ogni personaggio ha in sé un ‘pezzetto’ di utopia:

Piero viene ucciso perché ai ferri corti con la sua forza di sopraffazione;

Prinçesa si sottopone a un martirio di operazioni per assecondare “marxianamente” la sua originale potenzialità;

Il fantozziano Uomo Onesto, Uomo Probo de La ballata dell’amore cieco, si lascia morire per credere disperatamente a qualcosa che somigli all’amore;

Andrea si butta nel pozzo per raggiungere la sua naturale profondità umana che gli è stata negata;

Angiolina cammina cammina, con le sue scarpette blu e trova sulla sua strada solo chi la truffa e noi, come lei carini, corriamo corriamo, eleganti, bellini, profumati, indifferenti alla storia, che ci fa al forno.

Tutti questi personaggi, e altri, chissà quanti, vivendo inconsapevolmente l’utopia, in una società che non è esattamente di liberi e di uguali, finiscono col ritrovarsi emarginati, apparentemente perdenti, “amici fragili”.

In questa società di spettacolare sopraffazione, che De André chiamava “Via della povertà”, in cui regna la povertà d’animo, l’Amico Fragile, se non viene emarginato, si auto emargina, e non lo fa per essere superiore e neanche per scelta, ma perché gli viene naturale, come agli zingari, agli ebrei, agli anarchici, agli ultimi della terra.

Proprio quest’isolamento però, li porterà alla salvezza. A quell’integrità cui non sono potuti arrivare per pienezza, giungeranno per mancanza:

“Ieri cantavo i vinti, mentre oggi canto i futuri vincitori: quelli che coltivano la propria diversità con dignità e coraggio, coloro che attraversano i disagi dell’emarginazione, senza rinunciare ad assomigliare a se stessi”.

Sono loro, saranno loro, i “vincenti”, le “anime salve”, che tra “il vomito dei respinti” e in “direzione ostinata e contraria”, muoveranno la Storia.

Nelle mie esplorazioni intorno al Faber ho scoperto che egli tradusse a modo suo la canzone di Bob Dylan “Romance in Durango” con “Avventura a Durango”, ricevendo da Dylan una lettera in cui vivamente si complimentava con De André per la traduzione.

Lì fu lo spunto e questa è la

  Trama

(più o meno inventata, tra lo storico e l’immaginario)

 In Messico, nel 1910, durante la prima Rivoluzione di Pancho Villa, ai battaglieri peones del baffuto generale si unì un gruppo di artisti provenienti da tutto il mondo. Erano russi, francesi, brasiliani, italiani, spagnoli dai nomi significativi come De Andrevic, De Androis, De Andrade, De Andrea, De Andres. Tutti parenti, vicini e lontani cugini, tutte parti di Fabrizio De André, depositari delle sue parole e dei suoi scritti; tutti anarchici utopisti. Insieme formarono il primo esempio di Brigata Internazionale.

Questa Brigata di artisti si riunì a Genova e si imbarcò per il Messico, dove Pancho Villa le diede l’ordine di prendere la città di Durango, mentre egli decideva di fare rotta sulla capitale. Della conquista di Città del Messico ad opera del El general e di come finì miseramente la revolucion messicana a opera di politici normalizzatori tutti sanno. Di come e dove finì la Brigata degli artisti, invece, nessuno sa, e forse ora, qui, proveremo a scriverne la storia.

La Brigata riuscì a conquistare Durango, che da quella vittoria cambiò il nome in Victoria de Durango,  ma la marcia rivoluzionaria  fu lunga ed estenuante e si consumò in innumerevoli battaglie. Lungo la strada agli artisti combattenti si unirono tanti altri personaggi dalle canzoni di Fabrizio De André, con le loro storie spezzettate dalla inconsapevole utopia da cui erano vinti.

E ogni volta la battaglia fu un diverso fronte sanguinoso: Amore, Sesso, Politica, Religione, Economia… e ogni fronte sanguinoso su cui l’utopia si era battuta, fu per sempre ribattezzato “el frente del alma”.

Riccardo De Luca

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All’Elicantropo con De Andrè tra utopia e ragione

La debolezza è stata la potenza dei personaggi di Fabrizio De André. Non è estranea a questa considerazione l’intuizione registica di Riccardo De Luca, regista di “71 rose di rame” (come gli anni che avrebbe compiuto De André il 18 febbraio) in scena al teatro Elicantropo, che rivela la naturale disposizione alla teatralità dei testi di De André. Dieci personaggi (Luisa Amatucci, Salvatore Veneruso, Amalia Abbisogno, Elisabetta De Luca, Gennaro Maresca, Augusto Petrellese, Maria Sperandeo, Alfonso Salzano, Annalisa Renzulli, Michele Romano), forse artisti forse folli, partono per unirsi alla rivoluzione messicana di Pancho Villa, ripercorrendo quella insanabile frattura tra utopia e ragione che animò la voce del cantautore genovese. “Bisogna preferire la penombra del pensiero alle luci del varietà”, avvertiva De André, e così i protagonisti dello spettacolo abitano un tempo in cui la rivoluzione può ancora essere sinonimo di speranza, un tempo in cui non domina la “pace terrificante” profetizzata in “La domenica delle salme”. I “Berluscones” bombardano i protagonisti col jingle di “Passaparola”, e il disagio, linfa dell’arte, non può trasformarsi in sogno.

“Ho scelto il titolo ‘rose di rame’ – spiega De Luca – perché il rame è il metallo degli zingari tanto cari a De André. Perché di rame e vivente vedo il mostro a due teste, che mi affascina, e che il Faber cavalcava nelle sue canzoni, storie d’amore sì, ma anche storie che raccontano il complesso e passionale rapporto tra l’uomo e la sua utopia”.

La struttura dello spettacolo è una felice pantomima di alcuni testi di De Andrè. C’è spazio per i temi centrali del cantautore ligure, come la produzione della cultura da parte delle minoranze; le posizioni teologiche: “Il dio in cui nonostante tutto continuo a sperare dovrebbe sostituirsi a una giustizia terrena in cui non credo, come non ci credeva Gesù, il più grande filosofo dell’amore”. Le sue assennate considerazioni anarchico-politiche: “Temo moltissimo le organizzazioni umane, dai club allo Stato. Credo che in ogni organizzazione umana ci sia il germe della violenza”.

Morto De Andrè, i rivoluzionari si dividono: quelli del Nord con il fiocco verde, quelli del Sud col cappellino azzurro. Segue un finto come lucido lieto fine della rivoluzione: i nomi cambiano ma il potere esige indifferentemente ideali e male, bene e sangue. “Questione di tempo – profetizzò De Andrè – e il capitalismo andrà in pezzi quando l’uomo si spoglierà di tutte le pulsioni economiche”. Il capitalismo ancora resiste, e servirebbe forse, per abbatterlo, il sacrificio di tutte le pulsioni.

(InchiostrOnline – Gennaro di Biase)

Avrebbe compiuto 71 anni, questo 18 febbraio, l’indimenticabile Faber. Lo ricorda all’Elicantropo la compagnia di teatro
Experimenta, per la drammaturgia, regia e coreografie di Riccardo De Luca. Con 71 rose di rame, storytelling che
intreccia indignazione civile, avventura e fiaba irregolari, tra golpe e marce rivoluzionarie «in direzione ostinata e
contraria» verso l’Utopia. Ma la bussola punta sull’emozionale, con poco chiaroscuro e passaggi non sempre convincenti;
mentre il turgore del pensiero di De André ne esce sbrindellato in ritratti e numeri al limite del varietà.
VARIETA’ DE ANDRE’
Sarà perché giovani sono gli attori, che con molto entusiasmo e buona preparazione si sono imbarcati alla volta di
un’avventura di tutto rispetto (ricordare De André senza farne un santino); sarà perché il cantautore ha le dimensioni di
un gigante (non solo europeo) del secondo Novecento e che dovunque lo si guardi, come Genova sua città natale, «ha
un grembiule antiproiettile tra il giornale e il gilè» (per citare la sfuggente “London Valour” di cui in Rimini si narra il
naufragio): cioè imprendibile alla spicciolata; sarà che l’idea di De Luca è originale e sentimentale assieme, consegnando
ad un plot frizzantino e un poco indisponente l’unità di una poetica senza smagliature (gli ultimi, le minoranze; e la loro
rimozione, pervicace e meschina, da parte di maggioranze in volo «su un tappeto di contanti»); saranno queste ragioni,
unite ad una aspettativa alta dato il contenuto, ed altro, che quanto accordato dai dieci interpreti nei loro personaggi
somiglia ad uno spettacolo di varietà (certo: siamo a Napoli) depurato di tutto meno che della capacità di tenere la
scena, prediligendo la spettacolarità, tra canzone e monologo, più che l’asciutta riflessione sulla lucida, drammatica,
complessità critica della produzione deandreana.
Ne è uscito un discorso polarizzato su alcuni temi che meglio ridondano quando si parla di De André, e cioè il discorso
libertario, alla luce anche della Grande Normalizzazione degli anni 90, quello antimilitarista e minoritario, trasversalmente
intercettato da atmosfere a carattere popolare in un lungo folktale con fughe in avanti e sino ai giorni nostri. Ai poli della
trama sono due canzoni del Nostro, quell’Avventura a Durango, adattamento di Romance in Durango di Dylan e Levy, e
La domenica delle salme, sudario intessuto di luminescenze sarcastiche e profetiche all’indomani della caduta del Muro.
Sicché Durango, città natale del Pancho Villa, viene a coincidere con la meta di una rivoluzione riuscita da parte di una
brigata di anarchici utopisti imbarcatisi a Genova, tutti artisti dai nomi vagamente familiari (De Andrevic, De Androis, De
Andrade, De Andrea, De Andrei, ecc.) cui si uniranno i personaggi delle canzoni di Faber, Prinçesa e le signore della
duménega, Piero e il Bombarolo, le donne della buona novella e quelle della disamistade, l’Utopia (signorina Anarchia) e
il suo assassino. E, ancora, le vicende dell’uomo probo, di Franziska e di Andrea, e degli zingari Khorakhané con la loro
corona di rame in luogo di un Nobel per la pace.
L’utopia, dunque, come collante ideale della Smisurata Brigata, coltivando ciascun personaggio «il suo pezzetto di
utopia» (il famoso individualismo stirneriano), trascinando in cortile un cannone o quel principio di autorità di cui parlava
il Samuel Bellamy in esergo a Le Nuvole dal legno della sua nave pirata; ma anche una summa, tra il commosso e il
celebrativo, del De André-pensiero se potesse ancora oggi scrutare questi Anni Zero, carezzando un amarcord ancora
lontano dal finire: «I Berluscones ci bombardano! La Repubblica delle Mignotte ci attacca»; «liberate Mubarak, lo zio
della Ruby» (ma è battuta rubata a Crozza). Felici le commistioni di Prinçesa e Tammurriata Nera, le ibridazioni con la
disco music, la cucaracha e l’effetto scenografico del nero delle «macchie di lutto» sul bianco dei leghisti, foulard verdi
da brianzoli rivoluzionari «aziendalistas». Deprimenti le geremiadi delle figure de La Buona Novella, con interi versi
mandati a memoria senza la minima luce di splendore. Lì dove invece si sfiora la fiaba, facendo a meno del tono didattico, i momenti più vicini all’essenza della poesia. Qua e là appiattita da una bassa qualità attoriale per un De Andrè spesso vissuto dall’esterno, assimilato di fretta e senza grossi convincimenti interiori.

(ArTeatro – Annibale Rainone)

“…Riccardo De Luca, autore e regista partenopeo ha confezionato un originale viaggio verso l’utopia, tratto dagli scritti e dai personaggi del cantautore genovese…”

“…Lo spettacolo incrocia così più linguaggi, il teatro certo, ma anche la danza e ovviamente la musica, dal vivo, di De Andrè…”.

“…71 rose per 71 anni che Fabrizio De Andrè avrebbe compiuto domani – spiega De Luca – perché non appassiscono, perché il rame è il metallo degli zingari, perché di rame è il mostro a tre teste, che affascina e che il Faber cavalcava nelle sue canzoni. Storie d’amore nel loro significato più profondo, storie che raccontano il complesso e passionale rapporto tra l’uomo e la sua utopia…”

(Corriere del Mezzogiorno – Stefano de Stefano)